giovedì 7 ottobre 2010


E come potrei dare un nome alle cose che voglio davvero?
Esse si sfalderebbero, perderebbero la loro più intima essenza, uscirebbero trasformate, adattate, date in pasto come carne da macello al mondo, tagliate delle loro parti vitali, di bell'aspetto, ma morte.
Il mio subconscio le rende vive, più reali di qualsiasi cosa reale, più vive di qualsiasi respiro, hanno sangue, cuore, polmoni, sono uomini e sono donne, ma non date loro un nome, non chiamatele, esse sono fragili, piccole, delicate.
Basta un cenno per farle crollare.

Ho visto un gigante abitare i miei incubi, un colosso dalle fattezze mostruose accovacciato su una collina. Una notte il gigante si voltò e mi fissò, io che ero un punto infinitesimale perso nell'enormità, guardava me, piccola ombra angosciata nel sogno.
Il buio, la notte nei suoi occhi e tutto intorno, un nero più nero del petrolio, più viscoso della pece, una gabbia impalpabile, una morsa stretta allo stomaco.
Egli vedeva me, gigantesco e possente sapeva di potermi schiacciare con un mignolo.
Sapevo dell'incubo, sapevo che io stesso avevo partorito quel mostro, io ero quel mostro.
Io volevo sfidare quell'orrenda creatura che altro non era che la mia mente, turbata al sonno.

Inconoscibile e incontrollabile, l'universo sta appeso sulle nostre teste chine.
Manda i suoi colossi a controllarci, si mantiene attento, severo. O si disinteressa totalmente, fugge a velocità indicibile.

Nemmeno un'incubo restituirà mai lo spaventoso incanto dell'enormità in movimento, dell'assoluto, all'uomo, al povero uomo, all'uomo che creò Dio per gioco e ne ebbe paura, all'uomo che creò la scienza per diletto e poi ne ebbe sgomento, all'uomo che creò l'arte per tendere all'infinito, e ne rimase stritolato.

Ma le cose a cui ognuno tende, sono così delicate, così impenetrabilmente luminose, chiare, sole, hanno sangue rosso rubino nelle vene.

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