lunedì 8 agosto 2011

Mi chiamavi sporgendoti dalla finestra, ma cosa dicevi esattamente?
Forse, è una mia ipotesi, accompagnavi al mio nome una parola dolce.
Forse un lieve rimprovero, simpatico e sciocco.

Giocavo nel lavandino di marmo, gonfio d'acqua gelida, in giardino.
Di là la catasta di legna per l'inverno, gli attrezzi del mestiere, trucioli e seghe.

Pensare al vuoto ormai.
Conviverci.

E' rimasta soltanto la signora al piano di sotto, e il marito sordo, entrambi molto gentili.
All'ultimo piano, alla porta di fronte, l'irrequieta Grazia e lo scontroso Bortolo.

Sei stata scavata letteralmente dalla malattia.
Ti ha smunta e svuotata, totalmente.

Ma il tuo passo svelto, il giro infinito dalle sorelle e dai fratelli dei fratelli dai nipoti e cugini.
Quei sentieri e le bottiglie di vino nello zaino, i panini al cioccolato.
Le continue chiacchiere estenuanti con le amiche, di tutto, ogni cosa.

Ogni cosa adesso ferma.
Stagnante nella lacunosa memoria.
Memoria priva di vita, marcescente, autunnale saluto.
Sfogliantesi nei giorni.

Poteva essere e non è stato.
Prevedibile noia dell'accadere costante.
Uguali a noi stessi, noi stessi che insieme già non siamo più.

L'odore della pioggia sui pini.
Scivolare con il sedere e rotolare tra gli aghi umidi del bosco.
Slogarsi una piccola caviglia alla ricerca di piccoli funghi.
Tremare per un falso passo d'orso.
Pestare cacca di cerbiatto e sorprenderli a bere al ruscello
(fai piano altrimenti si spaventano).

Chiacchiere saccenti di una che aveva visto il mare soltanto una volta.
Sposato un rozzo minatore di ritorno da Roma.
(Sarà stato il fascino di un accento così distante).

Non so nulla di voi.
Nulla.
Non ho mai saputo ascoltare attentamente.

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