giovedì 9 settembre 2010

Non riesco ad alzare lo sguardo, ne ad aprire gli occhi completamente, ma fuori non c'è il sole.
Anzi è notte, e non mi sento bene. Mi arriva dritto al collo un pugnale che mi apre le vene.
Vacillo, e guardare avanti è la cosa più brutta. E' tutto così annebbiato, confuso, grigio e stanco.
Non trovo spiragli. Sono fragile, fragile, fragile. Ho pianto. Vorrei piangere.
Il mondo mi si presenta davanti concreto, immobile, è un mondo fatto di soldi e fame.
Non ho il coraggio. Voglio scappare.
Ci sono mani allungate che cercano di prendermi e portarmi via. Sgocciolo sangue, tanto sangue, basta chiudere una porta per sbattermi a terra.
Sono nella terra di mezzo, la terra di nessuno, il campo minato disseminato di rimorsi, occasioni perse, rimpianti, sono davanti a vicoli stretti e lancinanti, silenziosi vogliono accompagnarmi.
Siamo tutti soli. Mia madre se ne sta sul divano da ore a guardare in televisione cose che non le interessano, io me ne sto in camera. Non posso parlare, i muri sono sordi, sorda è la scrivania, la penna, il comodino, i libri parlano, ma non ascoltano.
Sono solo, ancora una volta. Mi tocco e sento che sono carne, alla fine.
Ma intorno a me ci sono soltanto luci di lampadine, fogli, tanti fogli, e davanti a me?
Ho voglia di piangere, magari di morire un po', cosa non fa la solitudine. Tante volte l'ho avuta come compagna la solitudine, ora è un mostro vorace che pezzo per pezzo, silenziosamente, mi divora.
Sento rumori soffocati, tonfi lontani, la testa mi gira in un vortice.
Forse penso, penso. Penso d'essere stupido, e poi penso che vorrei essere stupido. Penso che in questi momenti di angoscia tutto vacilla, è normale, passerà.
Ma riaffiorano i fantasmi di qualche tempo fa, e sono debole, nudo, povero, un bambino pauroso che guarda sotto il letto prima di mettersi a dormire.
Sono fragilissimo, un soffio di vento cambia la mia forma, dipendo dalle nuvole, dal loro colore.
Sono esposto alla pioggia, al vento, sono sospeso su una corda e tremo.
Ubriaco e leggero, dimenticando chi mi dimentica,
perchè il vino mi solleva sopra questo suolo
e cosa importa se poi vomiterò,
ricomincerò, ricomincerò a dimenticare,
per mandare avanti questi minuti,
o insomma queste ore vuote,
e riempirle di vino, vino, vino
rosso bianco rosè
e intorno tutto gira e gira e non riesco a fermarmi

mercoledì 8 settembre 2010

Sento cadere di peso le mie braccia lungo i fianchi.
Sarò quello che sapevo d'essere, sarò una sorpresa a me stesso, sarò un silenzio,
una luce?
Cadono le palpebre, cadono i ricordi, cadono i rimorsi, cadono le parole,
fuori, fuori dalla mia testa dolorante,
lontano, lontano dalla mia gola.
Un nodo, un nodo stretto,
un groviglio di lacrime cerca di farsi largo.
Sono preoccupato di non essere,
sono una stagione fredda appena al'inizio,
in costante caduta, le foglie, la neve, la pioggia, i rami.
Scivolo su una lastra di ghiaccio,
rapito dal gelo,
dove sono i miei sostegni, il mio nome, la mia casa?
Sarà come sempre, come era ieri,
come l'uomo che dal balcone fissava l'acqua,
come la donna che portava i figli,
come il bambino con le dita in bocca.
Non era certo questo a cambiare tutto,
era piuttosto un freddo, sulle mani, sul collo,
un dolore secco.

Sentiremo la sera il sapore dell'erba appena bagnata dalla pioggia,
l'aria indiscreta e fresca farsi largo tra i nostri capelli,
il miagolio dei gatti nascosti nei fossati,
e dormiremo attorno ad un pezzo di terra umida,
una terra che è fatta di me, è fatta di te,
e trema sotto i venti, sotto i sapori, gli odori di questo giorno,
trema la terra delle nostre donne, dei nostri uomini.

lunedì 6 settembre 2010

Siediti sulla mia spalla e parlami nell'orecchio
Parlami dell'inverno che abbiamo visto dal camino, stesi su un tappeto
Parlami della primavera vista da un letto sfatto e sudato, e che dolcemente passava sulle lenzuola
Parlami dell'estate ventosa, dell'acqua, del sale sulle labbra
Parlami di un corpo nudo, il mio, che tu sai stringere come un albero
Parlami delle onde del tuo corpo, che accompagno con le dita
del sapore del tuo collo
della tua schiena
dei tuoi fianchi
del bosco dei tuoi occhi
della tua bocca
e mi sento sospeso nel tuo odore
Durò soltanto una settimana il vento, ma sembrò non finisse mai. Uscirono tutti di casa ancora timorosi, nonostante il rauco ululato fosse cessato qualche giorno prima.
Alcuni alberi erano stati sradicati, ma non se ne aveva più traccia se non soltanto nelle profonde
buche che avevano lasciato.
Kingstonia non era un paese affacciato sull'oceano. Contava all'incirca duemila abitanti, qualche pecora, qualche mucca, qualche gatto.
Ma la vita in Kingstonia non poteva certo ricominciare daccapo, quella settimana aveva stravolto anche i più volenterosi.
Cominciò tutto all'improvviso. Il figlio del salumiere era uscito di casa da qualche giorno, quando tornò bianco in viso e stranamente silenzioso, lui che era un tipo gioviale e noto per le sue allegre sbevazzate in compagnia.
Non diceva nulla, si limitava a stare chiuso in camera. Il salumiere, cioè il padre, una notte sentì strani rumori arrivare dalla stanza del figlio, salì la massiccia scala in legno cigolante, spalancò la porta d'improvviso e lo vide, martello in mano, battere un chiodo sulla finestra.
Stava rinforzando il legno, i serramenti, si stava barricando nella camera.
-Che succede figliolo? fece il salumiere, ma il giovane era troppo indaffarato per sentirlo, e batteva sempre più forte.
Allora gli si avvicinò lentamente e gli pose una mano sulla spalla, quindi il giovane si girò dicendo "il vento sta arrivando!".
Questa piccola e apparentemente banale storiella circolò non si sa bene come in paese, e in un piccolo paese come Kingstonia si diffuse rapidamente.

Da quella notte passarono due lunghi anni, e quando oramai nessuno prestava più la minima attenzione né al salumiere né al figlio, il vento arrivò impetuoso.
E fu davvero qualcosa di improvviso, tranne per il salumiere che già da tempo se l'aspettava, sicuramente.
Le persone che per caso si trovavano all'aperto, chi al pascolo, chi a zonzo, chi al lavoro, furono sollevate come piume e sbalzate chissà dove.
Il boato assordante del vento crepò tutti i vetri, le imposte a malapena reggevano, e dei bagliori lancinanti illuminavano la valle.
La maggior parte della gente riuscì alla rinfusa a rincasare, rifugiandosi nelle cantine.

Non abbiamo molte testimonianze di quello che successe quei giorni e quelle notti. Gli abitanti di Kingstonia chiusero le porte al mondo, non parlavano, non uscivano dal paese se non molto raramente, erano diventati fantasmi pallidi ed impauriti.
Chi richiedeva informazioni veniva preso a male parole oppure strappava all'interlocutore soltanto frasi sconnesse o scarni monosillabi.

Alcune voci si fecero largo