domenica 28 febbraio 2010

rumore

stormo di tuoni

mercoledì 24 febbraio 2010

niente

Passi indifferenti e solitari, e labbra fredde.

Scade la stagione, ne viene colto sulla pelle l'ultimo grido.

Resina incolla le dita curiose.

Fianco squarciato da sguardi di lama.

Spezzati a bastonate come ossa fragili al tempo.

Parole di un grigio cenere.

Serpe.

martedì 23 febbraio 2010

tu tu tu

Tutte le volte mi dico sempre: tu non hai azzeccato veramente nulla finora. Avresti dovuto...cosa? Sì avresti dovuto comunque, appena mi viene in mente te lo dico.
E di più normali di me non ce ne sono credo. Sono solo un cazzone svogliato!
Dammi un pugno ti prego.
Ma ti rendi conto? Come guardi la gente? Dall'alto in basso. Non sempre dai. Moralista del cazzo!
O prendi una schifosissima posizione oppure rifugiati in una fottuta baita di montagna e parla con gli stambecchi idiota.
E le parole vanno e c'è gente che parla di ogni cosa che sta dentro i codici degli uomini e parlano parlano parlano. E uno è troppo ok se parla meglio, o se riesce ad incasinare qualche maldestro ascoltatore voglioso di profeti.
Tutti penderanno da quelle labbra.
Sfacciato interesse per gli affari degli uomini.
Scappare, scappare dove quando e perché? Potresti iniziare aprendo una porta no?
Si inizia tutto aprendo e poi chiudendo una porta.
Oddio ti prego colpiscimi forte!

lunedì 22 febbraio 2010

Vento

Oscillo al vento
compagno solitario
di vecchi amici.

Mi rimane
al mattino
il sapore d'erba bagnata
sulla guancia.

seme, frumento, campagna, fango, sole

Toglimi ogni verità e bagnami di nebbia.
Spargimi per la terra.
Maturami e coglimi
una volta cresciuto.
Sradicami e percuotimi,
privami di ciò che ti serve.

Ora di nuovo distendimi,
fammi riposare nel fango
e affondare nella melma
con quel che mi rimane.

Soltanto non illudermi, alla luce.

wow

Non avere un cazzo da dire ma provarci comunque fa schifo.

domenica 21 febbraio 2010

così

Hai abbassato gli occhi, e cambiato tono, hai detto una cosa così per dire, hai chiuso il cassetto, mi hai salutato. E lì sono rimasto, e tutto gira vorticosamente, e tutto è rimasto così approssimato e incompleto, e ogni cosa non si è iniziata, non si è finita, e ora che devo partire, e per poco, ora già mi manca tutto, e quel senso di leggera e galleggiante inconsapevolezza, e tutto gira, è un vortice che non voglio chiudere o fermare o capire, va bene così, sì, così.

sabato 20 febbraio 2010

silenzio

Silenzio
non è
muto.

E' gatto
in equilibrio
sul cornicione.

E' sguardo
fuori
dal vetro.

E' legno
che cresce,
e pupille dilatate
al buio.

Ricerca
di parole
che non sai
uscire.

Tela
spalancata
all'impressione.

Puntura di
rimorso.

Tutto quello che gira intorno

Frammenti
stracciati
di
significato

cadere

Frana di macerie
attorcigliate budella
sconquassate,
impeto di precaria
condizione
scuote il respiro,
sentimento
di fugace rottura
tra corpo
e terra.

S'apre voragine
immensa di stupore.

senso

Sensuale sensazione
di sospiri sussurrati
a seno scoperto.

Spoglia
un orgasmo
di sensi.

Solletico e
sparso rossore.

Solo scoprimi:

preso
senza alcun
senso
apparente.

trave

Marcisce
la trave
del soffitto
sotto un
lenzuolo
di polvere

strazio

Strappami
da questa
cancrena.
Tremante
strazio
di carne.

affonda

Tra rami e rovi
rinsecchiti
tra preghiere
al vento disperse

Affonda nella melma
la parola
mai sussurrata

A un orecchio
lancinante
strepitìo
di abisso
oscuro

io

Il mio carattere mi ha sempre spinto a scegliere cose e luoghi che altro non hanno fatto che chiudermi e precludermi possibilità e occasioni di crescita. Sembra quasi mi piaccia piangermi addosso.
Sempre ho voluto andarmene, ma sempre sono rimasto, in ogni caso, ogni volta, in ogni occasione.
Stretto, è l'aggettivo che in questi momenti più mi si addice.
Stretto da una morsa di routine e monotonia, ed il bello è che tutto è soltanto appena iniziato.
La fatica di entrare nel mondo, è una cosa insormontabile: sono davanti alla porta della mia vita, devo smetterla di fare il cretino, crescere.
Trovare uno scopo, anche a breve termine, un qualcosa in cui credere, una laurea potrebbe essere un'idea no?
E invece no.
Parole trite e ritrite da ripetere, concetti relativi e sospesi, fogli di carta, e la soddisfazione di un numero. Sì un numero, tra tanti numeri senza volto, un numero di matricola.
Ma che fatica potrà mai essere. Cercare una realizzazione attraverso lo studio, l'impegno, il lavoro.
Ma non è certo tutta colpa mia se non riesco a concludere nulla, inizio soltanto.
Nessuno mai, e dico mai, mi ha indicato una strada, una via, mai, mai.
I miei genitori a malapena sanno la facoltà a cui sono iscritto.
Ci fosse stato da bambino qualcosa, uno di quei piccoli progetti o sogni, l'astronauta, il militare, l'archeologo, il pilota o cose del genere.
O genitori o parenti che mi avessero forzato idee o pregiudizi: no, no.
Sempre solo sulla mia inconcludente strada, e dove mi porterà io di certo non lo so.
Ma non sono certo un incapace o un inetto, di questo me ne rendo conto.
Ho raggiunto spesso buoni risultati senza troppi sforzi, ma è anche vero che ho totalmente snobbato le cose che uscivano dai miei interessi.
E vado fiero della mia capacità di stare solo. E di non fare troppo rumore quando non è necessario. Di defilarmi silenziosamente senza gravi conseguenze.
E' che tutto mi sembra come un teatrino in cui ognuno recita la sua parte, indossa la sua maschera e si mischia a tutte quelle recite, a tutti quei drammi, quelle rappresentazioni che forse davvero servono a questa società e a questo mondo.
E mi dà fastidio dire così. Perché inevitabilmente mi pongo fuori, e vedo le cose dall'esterno, e fintanto funziona così io mai potrò entrarci.
E' fastidioso perché è una cosa meravigliosa questo teatro, in fin dei conti è la vita, è la frenesia di quel breve lasso di tempo, quel battito di ciglia, che per un momento ci abbandona dalla consapevolezza del mistero assoluto e paradossale che attende tutti al varco.
Ma trovo a volte persone che mi catturano. Toccare una pelle, baciare delle labbra,stringere intero un corpo mi fa sentire che davvero sì, ci sono, e con me c'è qualcun'altro, è un defibrillatore che mi scuote dall'assopimento.
Questi sono i miei attimi di sospirati abbandoni.

giovedì 18 febbraio 2010

parole

Sei nuda nella mia testa
e chiara e profumata
e selvatica.
Dolce lieve morbida
liscia.
Sei appoggio per le mie mani.
Le parole cosa contano?
Passo ogni singolo centimetro
di pelle
con le labbra.
E queste parole
già sentite
e risentite
nulla riescono a dire
se non che io e te
siamo
e il calore scorre.
Ci sono
e tu ci sei.
E le parole
sono cornice
soltanto.

mercoledì 17 febbraio 2010

giustificazione

La suola di una scarpa che si consuma è il cammino, un cammino metaforico, una ricerca di un indefinito qualcosa che consuma una cosa concreta e materiale, la suola, la persona.
Strade di luce. Fatte di flash accecanti.
"Trapasso stanco di rinascite" suonava bene. E' una ricerca continua, stancante, è una rinascita attraverso il passaggio in rassegna delle memorie, faticoso e non sempre piacevole e semplice.
E siamo stolti e stupidi quando ci tornano in mente cose che poi ci bruciano, e lo sappiamo, sono cose calde, ardenti come le braci, e lo sappiamo, e ci appoggiamo il palmo della mano comunque, ci scottiamo volontariamente, con una dunque consapevole stoltezza che deriva dalla necessità di farsi male, di provare del dolore.
Ed è proprio il senso di freddo intenso dentro di noi che ci spinge così a cercare la scottatura nei ricordi, in ciò che è andato e non tornerà.
E così questo bel caldo inizialmente apparentemente rassicurante da dentro ci erode, e ci rende consapevoli di tutto quello che è stato.
Il rumore di un pozzo profondo, non ne vediamo il fondo oscuro, ne sentiamo solo il rumore, e la pioggia, cioè vapore che sale invisibile verso il blu cielo.
La brina sull'erba. Sono qui mescolate alcune immagini, come fotografie.
La foto del silenzio.
E fotografie, cioè ricordi che lenti ed inesorabili si fanno sempre più confusi, lontani, distanti, sfocati, nonostante quegli attimi in cui riaffiorano così d'improvviso ma a fatica, per esempio quando ci si ricorda dopo molto tempo dei particolari piccoli ed insignificanti di un qualcosa o di qualcuno, come bagliori.
E tornano per un infinitesimo di secondo a galla quelle strade, quelle memorie, quei ricordi, dove eravamo stati qualcun altro, noi, io, te. Dove ci eravamo consumati, dove avevamo vissuto, dove tutto era qualcos'altro.
Esattamente quelle memorie smembrate, prive di carne e reale concretezza, prive di vere e proprie sagome nitide ormai, ricoperte da un velo di fumo per la maggior parte.
Soffuse e delicate, e ti chiedi, e speri che ti tengano compagnia per sempre, che non rifuggano nei fondali bui della mente, sotterrate dalla sabbia del tempo.
Non è una parafrasi, è più una giustificazione.
Giustifico le mie parole, e do a loro il mio significato. Quando le ho scritte di certo non pensavo consapevolmente alla spiegazione che hanno dato loro in queste righe.
Ecco perché è una mia giustificazione.
Ma è mia. Ci si può comunque vedere una cosa sconclusionata, maledettamente inutile e vana.
Ma almeno sono riuscito a giustificarla.

si consuma

Si consuma la suola
su strade di luce.

Trapasso stanco di rinascite.

Stolti ci porgiamo
a strepitare di braci,
poggiamo la mano.

Spinti al calore dal senso di gelo.

Torpore che brucia viscere,
e strazia tessuti.

Scroscia il pozzo,
e pioggia sale blu.

Verde rilucente luccichìo
di fili
di erba
di campi e prati.

E silenzio.

Fotografie nella testa affondano
istanti di affannosa risalita.

Riscopro vie
dove la gomma
s'è consumata.

Affiorano sfocate
soffuse e smembrate

memorie.

ci sei, ma non c'eri e non ci sarai

Riesci a cogliere il soffio del buio?
Quanto volte ti è passato sotto il naso. Per tutte quelle volte che la chiarezza del giorno è tramontata alle tue spalle.
Dove guardavi?
Forse piegato il capo dalla fatica pensavi a come tutto è meravigliosamente complicato.
Ma è tutto così. Esattamente così. No, non è complicato.
Quanti sono trucchi che ci complicano.
E tu farai inconsapevolmente quello che gli uomini ti chiedono di fare.
Farai quello che si aspettano da te, ti guarderanno e non sarai di un'altro posto, non sarai di un'altra specie, sarai loro.
E sarai le complicazioni meravigliose, sarai gli insormontabili problemi quotidiani, sarai i giorni, i mesi e gli anni, sarai forte e ti accompagneranno sempre, numeri e date e ore, e definizioni e necessità vitali.
Amerai l'abitudine, la dolce e silenziosa abitudine.
E pensa, pensa alle cose impossibili, pensa ai moti dei pianeti e alla caduta dei pesi, pensa alla forza di gravità, ai moti delle maree, pensa alla struttura matematica delle cose.
E credici, non c'è nulla di male.
E' un ignoto universo di segni, un universo di potere, potere umano, la mente, l'intelletto, la ragione.
E intanto, mentre sei di spalle tramontano le cose e scendono oscure ombre, ancora una volta, e tu sei lì, e tutto così da sempre, e tu non c'eri, e tu non ci sarai.

vago

L'immagine del tempo è un suono.
L'erosione da origine alle linee.
Tutto sta nel morire un po' per volta, dolcemente. I solchi, le palpebre cadenti.
La profondità dello sguardo. E' il suono, il suono del colore.
E' fuori dal tempo.
Osserviamo e cadiamo nel baratro oscuro del trascorrere, dello scorrere, del passare, anacronistica ricerca di brivido, pelle d'oca.
Tremiamo e sudiamo.
Questa è immagine.
Questo è suono.
Questo è colore di rame, colore di argilla, colore di fondale di fiume.
Questo è il fiume.
E' un suono, un rumore, un terremoto d'acqua torbida.
Un fruscìo amplificato di tempo.
E' mescolare ed erodere.
E' carezzare pietre e piedi infreddoliti e timidi.
Cupo colore.
Rosso acceso di sangue.

martedì 16 febbraio 2010

portati via si rimane

Tutto trascorre sotto le nostre dita, sotto la nostra pelle, tra i nostri corpi nudi intrecciati e pulsanti.
Non temere quelle parole che di fronte a te non riescono: accompagnami nei silenzi e negli sguardi.
Non cercarmi, non trovarmi, non scoprirmi.
Altro non sono che il palmo della mano sulla tua guancia, la punta della lingua sulla tua clavicola, il segno, il graffio sulla tua schiena inarcata al brivido del piacere.
Toccami, stringimi, scuotimi, tienimi le braccia.
Guardami dallo specchio mentre raccogli i libri sul letto.
Ti cingo di schiena e sento il tuo respiro.
Ogni cosa scorre, cambia, muore, rinasce. Ogni passione è trasportata obliqua per le strade e per i campi intorno.
Come sono cambiate le giornate. Più a lungo si è osservati dal sole, la nebbia sta rintanata in fossati umidi.
E intanto le nostre cosce si strofinano, il petto nudo è stretto al seno sussultante.
Questo innocente piacere ci sbatte e ci attacca ad un abbraccio, e siamo fragili corpi tremanti, caldi e sudati, e rapidi e affannosi sospiri.
E le teste poggiate alle spalle, chiusi nell'abbraccio lasciamo che tutto scorra, in una sospesa penombra di sogno.
In un tepore senza pensieri.
E come portati via si rimane, amica, compagna di sguardi.

lunedì 15 febbraio 2010

devo

Qualcuno mai ti ha detto che il tuo sapore è fresco e selvatico come quello di bosco dopo il temporale?
Appoggio l'orecchio e sotto la tua pelle chiara sento ribollire caldo il sangue. La bocca si consuma al calore delle vene.
Le mie mani ti scorrono assetate sui fianchi. Forte ti stringono per la vita, un sussulto di stupore alla tua morbidezza di donna.
Sei tu che le hai richiamate, tu inconsapevole della mia malinconia hai risvegliato i miei occhi, prima appannati.
Questi occhi verdi che ti guardano nella penombra ancora devono capire quello che ci accade.
Vedono il tuo corpo stirarsi nudo e accaldato, le spalle disegnate mi stanno nella mano, tra i denti affamati.
Ossa di quarzo e pupille di smeraldo.
Cosa succede non lo so. Non voglio sapere. Quello che non inizia non finisce, ma ora sei tu che alimenti un bagliore di vita dentro di me, tu con la tua voce, tu con il tuo sapore, e le tue forme sono sinuose onde di mare.
Dolcemente da lontano erodono la pietra.

mercoledì 10 febbraio 2010

Krs

Siamo in ventitré, in ventitré su centosette.
Alcuni sono morti sul colpo alla prima esplosione, altri ci hanno lasciato dopo la seconda.
Loro almeno non si sono accorti di nulla. Il resto dell'equipaggio non credo ce l'abbia fatta, non sappiamo nulla di loro, non riusciamo a comunicare con i restanti scomparti.
Questo è lo scompartimento nove, siamo ventitré, ventitré su centosette, gli altri ci hanno lasciato, per loro è tutto finito. Non so se invidiarli.
Scompartimento nove, ventitré su centosette. Stiamo stretti, l'aria è poca, respiriamo a fatica e il meno possibile.
Siamo adagiati sul fondale a più di cento metri di profondità. Stiamo sudando. E' una situazione da incubo.
Nessuno di noi parla, sarebbe uno spreco prezioso di ossigeno. Cerchiamo di restare tutti calmi, ma Nikolaij è giovane, si è sposato un mese fa, piange e spalanca la bocca, si dispera.
Tra noi è il primo a morire, ha fatto troppi sforzi inutili, ad un tratto si fa muto e si stende immobile sul pavimento.
I suoi occhi spalancati sembrano voler dire qualcosa. Mi sono perso nelle sue pupille.
Il capitano ci guarda con aria fiera.
Ma io non voglio morire. Le speranze di sopravvivenza saranno del dieci-venti per cento, essendo ottimisti.
Siamo qui nelle gelide profondità del Mare del Nord. Ognuno di noi ora è solo.
Troppe le energie sprecate nella speranza.
I più deboli tra noi lentamente si accasciano. Adesso si è fatto buio. Solo una spia ad intermittenza illumina con luce rossa i nostri corpi, a intervalli regolari.
Non distinguo più i volti, fa sempre più freddo, la vista mi si è annebbiata per mancanza d'ossigeno.
La temperatura scende di alcuni gradi ogni ora. Di questo passo credo non arriveremo all'ora successiva.
Che tremenda fatica è formulare dei pensieri lucidi. Ventitré su centosette chiusi in questo buco.
La struttura metallica del sommergibile si sta lentamente comprimendo con rumori lancinanti.
Le mani mi si sono irrigidite.
Chissà quanto durerà ancora.
Cosa lasciar detto ai miei cari? A mia moglie, alla mia vecchia madre, ai miei figli, a tutti?
Non disperate, non disperate. Altro non mi esce.
Durante l'esercitazione dev'essere esploso un siluro accidentalmente, e poi un altro ancora.
La parte anteriore con ogni probabilità è completamente squarciata.
Adesso vedremo questo famoso l'aldilà, ammesso ci sia davvero qualcosa oltre questa sofferenza. Non sono molto fiducioso. Sono tremendamente solo. Cosa mi aspetterà?
Ora basta, voglio farla finita.
Ivan è andato. Il capitano Sèmshok e gran parte dei ventitré.
Loro credevano in qualcosa? Magari se ne sono andati lasciando una speranza, una preghiera, un segno.
Per me è troppo tardi, posso solo confidare nei ricordi dei miei cari, in qualche commemorazione militare o cose del genere.
Verranno almeno a prendere i nostri corpi o ci lasceranno in questo sommergibile arenato sul fondale a marcire lentamente?
Avranno sentito i nostri SOS?
Ma cosa importa. In un modo o nell'altro si deve finire. Ma sta durando veramente troppo. E qui chiuso in questo scompartimento sempre più gelido e sempre più buio sono solo.
Nessuno dei sopravvissuti ha la forza di una parola o di un gesto. O di uno sguardo ormai.
Il tempo passa lentamente, ma oramai il tempo cosa conta?
Ogni secondo è un'eternità.

lunedì 8 febbraio 2010

incubo

Vaghi ricordi annebbiati.
Un enorme boa nero strisciava con silenziosa eleganza tra l'erba bruciata dal sole estivo.
Cantavano alcuni grilli. La staccionata oscillava impercettibile. Un vento sommesso soffiava delicato. E mi sentivo il cuore in gola.
Rumori, lievi e mescolati tra loro, li distinguevo, nitidi.
Il fruscio del boa, le grida degli insetti, il tonfo ritmico del petto che sale alle tempie. E batteva, batteva. Il frastuono della luce del sole, un boato, assordante, accecante, da ogni parte.
E i miei pesanti passi su fili secchi d'erba. Certo mi muovevo, eppure non facevo un metro.
Avvertivo una tremenda fatica: ricoperto di sudore, la bocca e le palpebre contratte.
La staccionata, vedevo la staccionata, posso raggiungerla. Quanto ero pesante, le gambe erano piombo.
Manca aria.
Il serpente mi ha raggiunto. Mi sale lungo le gambe. Le ossa, la tibia, il perone, si sgretolano sotto la sua stretta.
Incapace di urlare, il sangue bolle. Ora sudo freddo.
Immobile ogni osso del mio corpo si frantuma, e sale il battito, tum-tum, un ritmo frenetico e regolarmente spaventoso.
Aiutami, aiutami, aiutami! ricordo che tentavo di gridare nel sonno.
Poi il bacino che si spezzava, il sangue compresso nelle vene, le costole rientrano e forano i polmoni e il fegato.
Un fiotto di liquidi esce dalla bocca. Vomito sangue e acidi intestinali.
Sento gli occhi scoppiare, sento esplodere il collo, è intorno al collo.
La staccionata non è lontana, solo alcuni passi, la potrei toccare allungando il braccio.
Sono ridotto ad un ammasso di carne privo di struttura scheletrica.
E sento tutto, tutto quello che accade, sono lucido, consapevole, e fermo, ed ogni cosa mi si presenta chiara e alla luce di quel sole altissimo e del suo tremendo boato accecante.
Per quanto ancora?
Nemmeno un rantolo esce, un gemito, un impetuoso urlo di salvezza.
Paralizzato dallo testa ai piedi, si stringe a me la pelle liscia e nera del boa.
I grilli, li sentivo ancora.

mercoledì 3 febbraio 2010

Q

E' un periodo così, non penso molto e non ho grande interesse verso quello che mi circonda.
Ho nelle orecchie il volume alto e troppo vicino di un televisore, hanno finito di mangiare da poco gli altri, ridono e parlano.
Per dire, non è che sia in un momento di profonda riflessione e tranquillo silenzio. No, proprio no.
Allora cosa succede?
Sono raffreddato, soffro di mal di testa da alcuni giorni, devo preparare in qualche modo un esame, non credo sia nulla di impegnativo ma chissà.
Ecco forse la mia condizione psicologica dipende da quella fisica, non voglio nascondermi dietro qualcos'altro. Se uno ha emicrania e raffreddore da un po' è ovvio che non stia bene.
E non sento gli odori, e non sento nemmeno bene i rumori. E' raffreddore, solo raffreddore.
Ecco ho dimenticato quello che volevo dire, eppure qualcosa c'era. Va bene magari la prossima volta.