domenica 31 gennaio 2010

C'era una volta un bellissimo vaso di terracotta.
Venne acquistato ad una cifra relativamente alta per un vaso, ma era davvero bello, avrebbe fatto una gran figura in ogni casa, era un vaso da mettere nel salotto, che tutti potessero vedere.
Ma non c'erano piante adatte a lui. Oh ma era davvero bello!
Come se una pianta dovesse adattarsi ad un vaso. Ma le cose stavano così, e così le racconto.
Dunque il bellissimo vaso venne chiuso per un pò in ripostiglio.

giovedì 28 gennaio 2010

rumore

-Cos'è questo rumore? Lo senti?
-Non sento nulla di che stai parlando?
-Non puoi non sentirlo.
-Tu stai scherzando. Non sento un rumore particolare, ci sono le macchine, c'è la gente, insomma il solito rumore, tu di che parli?
-Di questo!
-Quale?
-Questo!
-Ma cosa dici?
-E' un boato terribile, senti, senti!
-Sei impazzito? E' tutto come al solito, tutto, tutto come al solito.
-Non ce la faccio più, è insopportabile!
-Vuoi spiegarmi che ti sta succedendo?
-Cosa? Che hai detto?
-Tu! Spiegami che succede a te!
-Chi?
-Te medesimo!
-Oddio mi scoppia la testa non ci resisto più!
-Ma tu sei malato!
-E' passato.
-Io non ho sentito nulla.
-Forse hai ragione. Non era nulla.
-Ma cos'era?
-Cosa?
-Quel rumore.
-Oh nulla.
-Come sarebbe a dire "nulla"?
-Nulla sarebbe nulla, che ti devo spiegare?
-Tu non stai bene.
-Mai stato meglio.
Il rumore, il rumore che veniva da sotto. Il rumore, il boato, il fracasso della terra che trema e geme.
Incespica chi lo coglie per un istante.

so

E' da tempo che so. Certo tutti già lo sanno, tutti, non è certamente una cosa che ho scoperto io, o una cosa alla quale si arriva tramite ragionamenti profondi, tramite riflessioni, o cose del genere.
No, è la cosa più ovvia e semplice.
E sempre è successa, sempre, senza distinzioni. Ma non tutti ne possono avere una così chiara consapevolezza, non tutti possono sentirla così inesorabilmente vicina.
Soprattutto in questo mondo, in questa società, tra queste persone.
Qui c'è come un gioco, una festa in maschera, maschere sorridenti e affaccendate, hanno un ruolo e lo svolgono.
La consapevolezza è davvero un serpente velenoso che si insinua sotto i nostri vestiti, talvolta sotto la nostra pelle.
Quanto vorrei, cosa? Che se ne strisci via.
Ma io ci sono, e lei è qui. E striscia nelle mie vene, con eleganza, ma rumorosa.
Invade la mia persona.
Non me la sento di scacciarla. Alla fine è anche un'amica.

acqua

Molte cose sapeva, molto aveva letto, sulle cose lui ci rifletteva.
Ma non sapeva nuotare.
E quella volta che la sua barca stava affondando, egli già sapeva di annegare.
Provò a nuotare, ma non ci riuscì. Non riuscì ad imparare una delle cose che già da appena nati si sanno fare.
Egli ingoiava acqua salata, e scendeva.
E scendeva e la pressione era sempre più forte. E le orecchie fischiavano.
Non riuscì a nuotare, l'aveva dimenticato subito.
Quanto era strano. Nulla poteva servirgli ora, e tutto era per lui così paradossale.
No, normale.

sabato 16 gennaio 2010

cezare (p.5)

Nel suo sogno c'è un faro abbandonato, e le onde che si infrangono sugli scogli. E' davvero un sogno meraviglioso. Ogni cosa trasmette affetto, sembra abbracciarlo, gocce di umidità gli bagnano il viso. Sembra che lo accarezzino. Il cane corre con lui lungo il molo.
Si sveglia in un torpore rassicurante. Quanto tempo.
Stava bene, benissimo.
Se c'è a Cezare una cosa che dà particolarmente fastidio è il voler essere compreso. Tutte le persone lo guardano con un'aria di compassione, gli domandano se sta bene, se non vuole unirsi agli altri ragazzi.
Cezare di solito non sta bene, e non sta neppure male. Vuole essere lasciato in pace, vorrebbe essere come una cosa dimenticata lì, in un angolo.
Pensare lo distruggerebbe. Tutti vogliono capire cosa gli passa per la testa. Nulla, non gli passa nulla.
Il pomeriggio è soleggiato, e dalla finestra di camera sua ora può vedere i monti dietro al condominio che sta di fronte.
Ha imparato a non essere vulnerabile. Nella sua condizione, con quello che gli è successo, altri sarebbero crollati.
Lui no, lui ha alzato una barriera tra se ed il mondo. Ma è pur sempre un ragazzo, e di tanto in tanto si lascia cullare con l'immaginazione.
Si immagina una pietra del molo, si immagina scoglio, si immagina una goccia.
Si immagina un cane. No, non gli riesce immaginarsi un cane. Dicono siano i migliori amici dell'uomo, e per lui non c'è nulla di peggiore.

cezare (p.4)

Cezare torna a casa.
-Come è andata la giornata?
-Il solito.
Si sdraia sul letto. La sua maglietta è sporca di terriccio e ha alcune chiazze di sangue.
Il giorno dopo Cezare non pensa più al giorno prima, ha dormito bene durante la notte, si sente riposato.
Passa la giornata a scuola come sempre, come sempre silenzioso, tiene gli occhi fissi davanti a sé e le parole lo sfiorano appena.
Ogni tanto fantastica. Si immagina ricoperto di foglie.
E la mattinata passa. All'uscita la professoressa dell'altro giorno lo ferma. Lo infastidisce.
-Cezare, davvero sono molto preoccupata per te. Posso provare a capirti, se ti apri un attimo. Parlami un po' di te, di quello che fai, non avere paura. Vedrai che ti farà bene.
D'improvviso, come se prima l'avesse già bello inscatolato e posto su una mensola in un angolo della memoria, ed ora questa scatola fosse caduta aprendosi, gli balza per la testa il cane.
-Ho legato un cane ad un albero, e l'ho ammazzato di bastonate. Ma sarebbe morto di fame comunque.
La donna rimane perplessa. Non sa bene come comportarsi.
-E perchè l'hai fatto?
-Vede, non me lo sono ancora chiesto. Probabilmente ero annoiato. Non crede?
-Vorrei tanto parlare con tua madre.
-Non le direbbe molto. Se ne sta sempre zitta. Legge riviste sul divano, poi si sposta in camera, poi ancora sul divano. Di tanto in tanto esce a prendersi quello che le occorre.
-Vorrei provarci ugualmente.
-Lei è stupida sa? Se ne rende conto? E' inutile le ho detto.
Cezare se ne va e non lascia alla donna possibilità di replica.
Le poche volte che Cezare dialoga con qualcuno succede sempre così.

cezare (p.3)

Cezare non ha voglia di tornare a casa. E' una bella giornata, la temperatura è perfetta.
Cammina guardandosi i piedi, scalcia quello che trova per terra, non si cura dei passanti.
Sono loro a spostarsi, non lui.
Non attraversa la strada per casa sua, non gli va.
Si ferma un attimo a guardare le finestre del suo condominio, scorge quella del salotto dove probabilmente la madre sta già stesa sul divano.
Poi decide di tornare al suo posto segreto in campagna.
Gli passa per la testa il sogno della scorsa notte, e gli occhi del cane, e la furia del padre. In un baleno gli scorrono davanti le immagini del sogno, ha la pelle d'oca, prova ribrezzo.
Vorrebbe urlare forte. Vorrebbe.
Ora si trova davanti al cadavere del cane. E' morto, si dice. Già, morto. Ed è ancora legato.
Lo slega dall'albero. Cezare piange. Era tanto, tantissimo tempo che non piangeva. Le sue lacrime sono silenziose, ma scendono copiose dai suoi occhi.
Non se l'aspettava.
La testa gli fa un male terribile, come avesse un qualcosa dentro che pulsasse.
Prende il cane e lo solleva, lo porta per un centinaio di metri e lo accascia sull'erba di un fossato in secca.
Si allontana un attimo, ma presto un rimorso comincia a divorargli lo stomaco.
Torna indietro e si siede di fronte al corpo morto del cane.
Se ne sta lì a fissarlo, e piange. Sente come delle fitte in tutto il corpo.
Non si domanda nulla, ha smesso da un po' di chiedersi le cose.
E' soltanto seduto e piange. L'odore è forte.

venerdì 15 gennaio 2010

cezare (p.2)

Cezare non ha sensi di colpa. Cezare non ha nulla.
Vive in un mondo che sfugge agli altri. Vive di fantasie sospese.
E' tarda sera quando torna a casa, apre piano la porta, la madre si è spostata in camera da letto.
Toglie la maglia bianca, toglie i pantaloncini e le scarpe, poi le calze, guarda fuori la finestra, e si sdraia a letto.
Cezare dorme e sogna. Sogna gli occhi del cane. Sembra gli sorridano, e gli siano grati. Poi d'improvviso sanguinano, e il padre inizia a picchiare Cezare.
Cezare urla e chiama aiuto, il cane resta steso per terra e legato, lo guarda allo stesso modo di prima.
Si sveglia di soprassalto, scosso nel cuore della notte, la mano gli trema. E' già successo altre volte.
Il mattino dopo si alza automaticamente, si veste, non fa colazione, prende lo zaino dove l'aveva lasciato e si dirige a scuola.
Passa la solita strada, con i soliti muri ed il solito bar, svolta a sinistra e prosegue verso la scuola.
Cezare è un giovane di quindici anni, ma lo si direbbe più grande. I suoi occhi verdi sono più maturi di quelli dei compagni.
Ha dovuto maturare in fretta.
Raramente si lascia scappare una risata. In classe hanno ormai imparato ad evitarlo. E' un tipo taciturno e scomodo.
Durante la pausa l'avvicina una professoressa.
-Cezare come stai?
-Mai stato meglio.
-Dico davvero, va tutto bene a casa?
-Come sempre.
-Perchè non sei con i tuoi compagni?
-Sto meglio così.
-Dovresti essere più espansivo.
-Se lo dice lei.
Gli insegnanti conoscono i suoi problemi, quello che gli è accaduto in passato. Anche alcuni ragazzi ne sono a conoscenza. E' una storia lunga che in giro conoscono, chi più e chi meno.


giovedì 14 gennaio 2010

cezare

Cezare cammina. Vede i muri con l'intonaco scrostato. Vede le scritte sui muri. Passa davanti al bar dove dei vecchi parlottano seduti fuori, su sedie di legno. Saluta con un cenno. Lo conoscono abbastanza bene in paese. Passa oltre. Si ferma all'incrocio. Attraversa e si trova sul marciapiede opposto. Ora è arrivato a casa.
-Sono tornato.
-Hai tolto le scarpe?
-Si mamma.
Entra nella sua stanza, e si sdraia sul letto, indossa ancora le scarpe.
La sua stanza è una stanza come un'altra, è spoglia e non sembra una stanza di un ragazzo. Il letto è stretto, la scrivania in un angolo, l'armadio sproporzionato rispetto alla stanza. Sulla sedia ci sono dei pantaloni ed una maglietta blu.
A Cezare non è mai importato di abbellire la sua camera. Non sarebbe mai entrato nessuno si diceva. E sinora è stato così, ad eccezione della madre nessun altro ci è entrato.
La madre è in salotto, legge una rivista. Poi parla a voce alta verso la camera del figlio.
-Come è andata a scuola?
-Il solito.
La conversazione è già finita. Sino al giorno dopo non avrebbero più parlato. Ci ha fatto l'abitudine.
La stanza è al terzo piano del condominio, e la finestra da sul terzo piano del condominio dalla parte opposta della strada. Dietro al condominio, ogni tanto, nelle giornate particolarmente limpide, si scorgono delle montagne. Ma sono molto lontane.
Ma questa non è una giornata particolarmente limpida, e alla finestra non c'è nulla da vedere.
Cezare sta sdraiato sul letto, chiude gli occhi, dalla finestra aperta sente passare delle auto di tanto in tanto, è una giornata silenziosa.
E pensa. Si sente giù. Ci ha fatto l'abitudine.
Sente il rumore delle pagine sfogliate dalla madre, di là, nel salotto.
Pensa. Si immagina delle belle storie. Ma poi si sente giù.
Dorme un pò, e verso sera esce di casa. La madre dorme sul divano, non vuole svegliarla, apre piano la porta e scende le scale.
Torna sul marciapiede, attraversa la strada, ripassa davanti al bar, i vecchi non ci sono più, ripassa davanti ai muri scrostati e prosegue.
Non c'è più il caldo del pomeriggio, ora sta bene. E' primavera inoltrata.
Cezare indossa dei pantaloncini corti, le scarpe da tennis che ancora deve togliere, la maglietta bianca. Ha capelli castano chiaro, tagliati a spazzola, ha occhi verdi, e un viso simmetrico.
E' un ragazzo molto magro, ma in salute. E' un ragazzo che parla poco.
Camminando esce dal paese e ora si trova in campagna. La conosce bene, ci viene spesso, non è distante da casa sua.
Imbocca una strada sterrata, e poi un'altra, e poi ancora un'altra.
Arriva nel suo nascondiglio segreto, nascosto tra le siepi e tra le fronde degli alberi. Si guarda intorno. Non c'è nessun'altro.
Qualche giorno prima ha legato un cane al tronco di quell'albero.
Non mangia da alcuni giorni, non ha fiato per abbaiare. E' molto magro. Le costole si possono contare.
Il cane lo vede e si alza, scodinzola.
Cezare prende un grosso bastone e picchia il cane legato. Non lo ammazza, lo lascia agonizzante.
Gli occhi spalancati.
Poi lancia il bastone via. E se ne torna a casa.

bah

-Guardate come trascina i piedi per terra. Vi prego, guardate. Ecco è il tipico esempio di giovane stanco. Sì esattamente lui, guardatelo bene, guardate i suoi occhi, cosa notate? Nulla. Ecco nulla. E' un tipico ragazzo svogliato e vuoto che trascina il suo peso. Ecco, voi diventerete esattamente così. Non avete via di scampo. Ah i miei tempi! Quelli si erano bei tempi. Già, ci si divertiva e si sorrideva sempre, sempre. Saltavamo, giocavamo. Sempre. Invece ora! Questi ragazzi sfaticati, svogliati e annoiati. Cosa faranno mai nella vita! Cosa? Ve lo dico io. Nulla, nulla.
-Oh ma che bello.

mercoledì 13 gennaio 2010

strada

Passò tutto il pomeriggio con la testa tra le mani. L'aveva combinata grossa.
Ora se voleva evitare guai doveva partire, non aveva scuse.
Cosa l'avesse spinto ad agire così davvero non lo sapeva. E non se lo domandava nemmeno, come se non avesse potuto fare altrimenti.
Tutto era irrimediabilmente compromesso. Prese la grossa valigia di pelle marrone ed iniziò a vuotarci dentro, a caso, indumenti dall'armadio.
A malapena riuscì a chiuderla, la depositò dinanzi la porta d'entrata, e d'improvviso cominciò a prenderla furiosamente a calci.
Doveva muoversi comunque, già aveva aspettato troppo.
Telefonò alla madre, che era gravemente malata ed abitava a qualche paese di distanza, si sincerò delle sue condizioni, le disse che aveva un nuovo impiego e che sarebbe partito, e per qualche giorno non sarebbe potuto andare a trovarla.
Ma non era stupida e dalla voce del figlio capì che era accaduto qualcosa di importante.
Uscì di casa, e a passo spedito si diresse alla fermata dell'autobus trasportando sulla spalla la pesante valigia.
Quell'autobus portava in una qualche lontana città in un qualche lontano posto ad est.
Aveva un terribile batticuore e sudava freddo. Cosa gli era saltato in mente?
Si mise in testa che nulla più poteva tornare come prima, nulla.
Sperava di riuscire a dimenticare tutto e tutti in breve tempo, farsi una nuova vita, un nuovo lavoro, una nuova donna.
Ma ora non importava, ora l'unica cosa che importava era scappare, soltanto scappare, ed in fretta.
Salì sull'autobus inciampando sullo scalino, si sedette in fondo e si rannicchiò come un bimbo sul sedile.
Si sentiva così vulnerabile.
Si lasciò alle spalle il paese e lo maledisse con tutto il cuore. Alla fine, se era diventato quello che era diventato ed aveva fatto quello che aveva fatto, non era certo tutta colpa sua.
Chissà quante volte già era successo da qualche altra parte.
Cose che capitano, se magari la madre fosse sempre stata vicina, se non si fosse malata, chissà non sarebbe accaduto nulla.
Si sarebbe presentato al lavoro di prima mattina pettinato e con la barba fatta, come era solito.
Invece tutto era così drasticamente diverso da quel momento. La vita precedente non contava più nulla, doveva eliminarla dalle sue vene il prima possibile.
Era tutto fuorché semplice, ma era il momento di scappare.

foglie nere

Un mucchio di foglie nere era stato accatastato in quell'angolo nel pomeriggio.
-Dovremo berci sopra qualcosa amico, dico davvero.
-Non credo, l'alcol mi rende triste.
-Già ora non ti vedo molto allegro.
-Si me ne rendo conto, insomma in fin dei conti è stata una cosa talmente improvvisa.
-Senti, lascia perdere, non pensare. L'alcol dovrebbe annebbiarti la mente, ora vedi tutto troppo con chiarezza, fidati.
-Te l'ho detto, mi intristisce. Potrei arrivare addirittura a piangere.
-Sono curioso, non ti ho mai visto piangere, seriamente.
-Bell'amico che sei.
Intanto la sera iniziava a farsi strada tra tronchi ed il fogliame, il freddo si faceva sempre più pungente.
La baracca in legno sarebbe stata il loro rifugio per la notte.
-Senti che vuoi che ti dica io ho bisogno di bere. Casomai cambiassi idea fammi un cenno, chiaro?
-E tu che diavolo avresti da dimenticare nel brandy?
-Oh qualcosa da dimenticare c'è sempre. E' stata una giornata veramente pesante, non ti immagini, ho dovuto portare a valle un mare di cose.
-E l'autocarro?
-Ah quel figlio di puttana!
-Capisco.
Se ne stettero per un po' di tempo silenziosi ad osservare la legna ardere nel camino. In fondo non avevano molte parole da dirsi.
Era stata una giornata pesante per entrambi.
-Ne vuoi un goccetto?
-Di nuovo? No mi intristisce.
-Uh, ora sei il ritratto della felicità sai?
Abbozzò un sorriso che non gli venne per nulla bene. No, non era giornata.
-Sicuro che non creperemo di freddo stanotte?
-Mio padre ha portato delle coperte pesanti tempo fa. Solo non so dove siano.
-Ricordi quando venivamo sempre qui da bambini?
-Oh certo, che giornate meravigliose. Dovresti proprio assaggiarlo questo brandy, è di quelli invecchiati chissà quanto tempo in chissà quali botti. Senti un po'.
Già se n'era scolato mezza bottiglia.
-Noi siamo invecchiati, noi. Ora è come se lo avvertissi sul serio, però mi sfugge il momento preciso in cui l'ho capito.
-No, non ti credo. Tu vedi sempre tutto chiaramente, finchè non bevi almeno.
Fuori era buio.
-Ecco nemmeno mi sono reso conto che il giorno è passato.
-Tanto ritorna, fidati.
-Già, ritorna.

martedì 12 gennaio 2010

uomo

-Vieni ti aspettavo.
E quella che era una sagoma oscura avanzò nella penombra sino al bordo del letto.
-Io non so chi tu sia, ma ho come l'impressione che ti stessi aspettando ormai da troppo. Coraggio avvicinati, lasciati vedere, sei in ritardo.
L'ombra non pronunciava alcuna parola, i suoi movimenti erano muti, non alzavano nemmeno un granello di polvere.
-Perchè non ti mostri? Ti ho atteso da così tanto tempo, ma così tanto tempo, che ho perso interesse per la mia persona. E ho immaginato il tuo volto, per tutto, tutto questo lungo tempo.
Ma non si mostrava, rimaneva nell'oscurità. Forse non era materia, era buio soltanto. Ma la sagoma mosse la testa. E l'uomo se ne accorse.
-Vuoi forse dirmi qualcosa? Avvicinati qui, all'orecchio, una parola, un suono mi basta.
Ora era ferma. Nel buio. Nel silenzio. Rotto solo dal faticoso respiro dell'uomo.
-Chi devo pregare per un tuo segno? Chi devo scomodare?
Le parole uscivano dalla sua bocca con molta fatica, doveva sforzarsi, un rantolo confuso, un sussurro tremolante.
Con voce profonda e ferma l'ombra disse:
-Sono solo il guardiano della porta. E questa porta è aperta soltanto per te.
-Non sono ancora pronto. Voglio vedere il tuo viso.
-Il mio viso sempre ti sarà sconosciuto, ma sempre l'hai potuto osservare. Ora tu tremi. Non avere paura, sono soltanto un guardiano.
-E cosa custodisci, guardiano?
-Nulla di ciò che tu già non sai, nulla di ciò che tu già hai potuto vedere. Guarda tu stesso.
L'uomo indugiò, era arrivato forse il momento, forse, una volta per tutte, avrebbe colto il mistero.
-Sono stato un instancabile avventuriero, ho esplorato monti, mari, deserti, foreste. In ogni cosa l'ho cercato, ma ne ho sempre e solo sfiorato la scorza. Sempre ad accompagnarmi il lacerante desiderio di vederti, ma non sei tu, tu sei solo un guardiano.
-Ma custodisco il mistero.
L'uomo ora era profondamente combattuto.
Quanto aveva atteso quel momento. Era solo un guardiano, magari il più basso guardiano di una delle infinite porte del mistero. Era così vicino, e così calda e sicura e ferma la sua voce.
Guardò.

lunedì 11 gennaio 2010

aria

Già il vento soffia sempre nella direzione contraria. Ti scompiglia i capelli e ti fa lacrimare. A volte si alza la polvere, e fa male. Riesci a respirare? E' aria, aria. E' soltanto troppo forte per te, è così ostinata nel suo viaggio che non si cura della tua sagoma. E ti colpisce. Ti farebbe anche cadere a terra. Ma è aria, quella che ti ha sempre mantenuto in vita, quella che ti ha sempre cullato. Soltanto che a volte è bastarda. Ed è lei, oppure sei tu ad esserle contrario? Sei tu che cerchi di arrampicarti tra le sue molecole invisibili.
A volte è gelida e ti secca le labbra, a volte è bollente e ti brucia il viso.
Scopre e scoperchia le case, abbatte alberi e ti culla con un leggero fiato nel sonno, quando dormi in lei.
Uccide e dà vita, come tutto, come tutto.
Sta a te.

domenica 10 gennaio 2010

in treno

Lo scompartimento del treno era vuoto quando salì, fatta eccezione per un uomo con la giacca di pelle seduto dietro alla fila opposta.
Il treno partì, e si trovava di schiena rispetto all'andamento del treno. Dal finestrino del treno vedeva soltanto le luci, perchè il finestrino era sporco e fuori ormai era buio, dunque oltre le luci non era possibile distinguere alcuna sagoma.
Entra una donna. E' incappucciata e ha una grossa valigia, è più giovane di quanto sembri, credo abbia meno di trent'anni. Parla al telefono con un'amica. Pare sia una studentessa universitaria, già, ne ha proprio l'aria. Vorrei toccare la sua sciarpa di lana, ed il suo maglioncino di lana, sembra così morbido. Ride e per un attimo rivolge lo sguardo verso me.
Il treno è rumoroso e vibra. Davvero fastidioso. Vorrei sentire meglio la voce della ragazza.
Nell'aria c'è un odore di arancia, mi ricorda l'odore di qualche ora prima.
Ma è davvero rumoroso come treno. Di tanto in tanto mi specchio nel riflesso del vetro. Si certo sono sempre io, ma alcune volte, anzi spesso, ho bisogno di conferme. Ogni tanto ho bisogno di sentirmi dire qualcosa, o di vedermi un attimo.
Ma il treno vibra maledettamente, vibra.
Ora vedo delle case, un qualcosa che sembra un cimitero, parevano tanti lumini uno sopra l'altro ma potrei ingannarmi, potrebbero essere semplici luci di lampioni.
La donna, o la ragazza che sia, non sono bravo a distinguere le età, ha capelli lisci e biondi raccolti da una coda, e ha delle adorabili borse sotto gli occhi.
Ora scende.
Mi sbagliavo, la giacca dell'uomo in realtà non era di pelle.
Quanti treni dovrò ancora prendere? E per dove?
Mi sento stretto, come se qualcosa mi opprimesse. Vorrei non annoiarmi, ma in fin dei conti sono un povero ragazzo troppo viziato.
Ecco, stavo dicendo, mi sentivo stretto prima, figurarsi ora che lo scompartimento si è riempito e mi trovo circondato da nuovi sconosciuti.
Alcuni dicono delle parole in francese, altri credo in marocchino, due donne che si siedono di fronte a me hanno un accento dell'est.
Ma comunque si, sono un ragazzo viziato e troppo coccolato da bambino, ben cresciuto comunque dai genitori, educato, timido, pensieroso.
A scuola me la sono cavata sempre abbastanza bene, Non ho mai avuto un lavoro che potesse chiamarsi così, nessuno mi ci ha mai costretto, e non mi ci sono mai sentito interiormente costretto.
Finora grandi difficoltà non ne ho mai incontrate, no forse le ho saltate a piedi pari. Non mi sono mai applicato per superarle, ci ho riso sopra. Stupido. So che potrei pentirmene, perchè credo che prima o poi da qualcosa o da qualcuno verrò punito.
L'università già mi annoia. Stupido. E si che si presentava come una bella e simpatica illusione, prima. A dir il vero per un po' mi ero convinto di poter diventare il più grande sociologo di questo secolo. Ma sentilo, patetico.
E poi lei è così dolce.
Spero non faccia la mia fine. Ancora non so se le faccio del bene o del male. Potrò esserle simpatico, apparirle come intelligente e interessante, ma ho paura, davvero, di farle del male.
No ma lei come me non potrà diventare, lei si muove lontano dalla mia pigrizia, ecco perchè lei mi piace.
Ho forse paura di me stesso? O la noia, la noia, la noia?
Sono pigro. E vigliacco. e scappo.
Ho una terribile paura. Vorrei essere così non perchè lo sono, ma perchè mi ci atteggio.
Quante volte lei me l'aveva ripetuto quest'estate, prima di partire, le ultime settimane che ci vedemmo.
No tu non devi diventare come gli altri, non puoi sprecarti nella banalità, nell'università, no non puoi, ma succederà, e mi dispiacerà molto, farai certamente quella fine.
Io si, certamente, mi sto sprecando. Ma credo in fondo sia la mia meta finale.
E poi, cosa, che qualità sto sprecando? Cosa? Cosa?
Non so se questo posto sia fatto per quelli come me, posso abituarmici per un pò, ma poi ripiombo in me. Non so, dire che è una condanna fa molto da poeta maledetto, ma non è per me.
Ecco devo trovare un qualcosa di metafisico in cui credere.
Devi avere fiducia in te stesso! Direbbe mia madre.
Avessi potuto scegliere, sarei nato gatto.

incubo

Aveva avuto un tremendo incubo, che lo scosse per diversi giorni. Non era nulla di surreale o spaventoso, non aveva a che fare con una caduta, con una morte, non era un incubo dei soliti. Era così forte che chiuse lo stomaco del ragazzo, non mangiò per tre giorni.
-Ragazzo, è ora che tu ti faccia uomo. E' da molto che vorrei farti un discorso del genere. E' ora che tu cresca.
-Papà, c'è qualcosa che non va?
-Non puoi più essere un parassita. Sei un parassita. Ci stai prosciugando. Stai prosciugando i nostri risparmi, e stai dilaniando la nostra felicità.
-Ma papà, io...
-Taci, taci. I tuoi silenzi ci hanno angosciato negli ultimi anni, avremmo voluto vederti morto e dimenticato in un angolo della strada. I passanti ti avrebbero scambiato per un barbone ubriaco, e saresti morto solo e al freddo.
-Io, io...
-E' ora che tu te ne vada. E' ora che la tua ombra di angoscia se ne vada. Sei una maledizione, sei un cancro. Vattene.
-E' freddo fuori, non ho nessuno oltre voi, ti prego.
-Vattene! Misero essere putrido, odori di morte. Come ha potuto il mio seme dar vita a te?
Quando si svegliò pianse. Nel sogno il viso del padre era pieno di rughe, gli occhi parevano due pozzi neri, profondi e privi di luce. La sua voce pareva facesse tremare le fondamenta tanto era possente e tanto sembrava rimbombasse.
Un'incubo terribile.

sabato 9 gennaio 2010

speranza

Passarono davanti alla casa diroccata verso le prime ore del pomeriggio. Era proprio quella la casa di cui molti già gli avevano parlato nel bar del paese, e racchiudeva una sorta di leggenda popolare.
Dicevano infatti vi vivesse un tempo una pazza donna, una strega che era solita trasformarsi in un gatto nero che viaggiava per i vicoli del paese nella notte.
-Ma è mica questa?
-Ecco si è la famosa casa della strega.
-Qui in paese ci sperano tutti.

venerdì 8 gennaio 2010

amici saggi

-Maledetto maledetto vigliacco! Maledetto io lo ammazzo!
-Mi ricordi un certo film di un certo regista come si chiama, aspetta aspetta, no l'ho scordato.
-E ammazzo pure te se continui così!
-Si un film davvero, holliwoodiano tra l'altro.
Erano loro due, seduti sulla panchina del parco, anzi seduto stava solo il tipo tranquillo che non ricordava il titolo del film, ammesso che davvero lo sapesse, l'altro saltava qua e là, sudava e si dibatteva, di tanto in tanto urlava insulti a sproposito.
-Perchè, perchè succedono a me! perchè?
-Ma dai sono cose che capitano, ascoltami, te la prendi così, è normale alla fine, cioè guarda la situazione con distacco cosa vuoi che sia? Siamo giovani tutto qui.
-Muori. Tu credi di capire, credi addirittura di essere superiore a tutti noi, ma no, sei così distaccato e gelido perchè questo è il tuo unico modo per difenderti dalla vita! Vigliacco te e l'altro bastardo!
E questo l'aveva sempre saputo. Come del resto aveva sempre saputo che consolare gli amici non era la cosa che gli riusciva meglio. E nemmeno ci provava a dire il vero, erano loro che avevano bisogno del suo essere così distaccato e lontano.
Sapeva anche di incutere diffidenza, e ne andava fiero.
-Certo certo hai ragione, prenditela pure con me, come se fossi io la causa della tua situazione!
-Stronzo.
-Già.
Ora il sangue nelle sue vene aveva smesso un attimo di bollire, si sedette, ma la gamba gli tremava ancora nervosamente, ammirava il silenzioso e calmo amico.
-Tu, si tu devi insegnarmi ad essere come te. Il tuo atteggiamento prende in giro tutti e tutto. Non so se ne sei consapevole. Davvero insegnami, come diavolo fai? Cosa leggi? Filosofie orientali e cose varie? Cazzo spiegami!
Che brutta sensazione era per lui l'essere trattato da profeta, si insomma, profeta spicciolo. Era quasi un'ammissione d'inferiorità dell'amico.
-Senti io non ti consiglio proprio nulla, tu alla fine così stai bene. Ti innamori, ti arrabbi, sudi, sputi, sanguini. Io no. Dunque non fare tanto la vittima, tu non sei una vittima delle ingiustizie della vita, tu fai il gioco della vita. Non sto certamente dicendo che tu sia uno stupido scimmione, no, attento, tu hai una tua saggezza, la tua più grande saggezza sta nella tua collera, nel tuo amore, nel tuo dimenarti scalciando la polvere o nel tuo sdraiarti accarezzando l'erba.
-L'ho sempre detto, tu sei un tipo sprecato. Cosa diavolo ci fai qui a parlare con me?
-E' nauseante sentirsi dire così.
-Si alla fine tu non hai mai saputo fare nulla. Te la cavavi in diverse cosette, ma non ti sei mai buttato con decisione su una via.
Ed era così. Era giovane, certo, ma quanti minuti, quante ore, quanti giorni aveva già sprecato.
E poi iniziava ad invecchiare. Si vedeva già come suo nonno, solo ad un tavolo di un bar, ma con la battuta pronta. Almeno quella.
A quante porte era stato davanti? Molte, un'infinità. E chissà quante altre ancora. Perchè era giovane, e aveva un'ottima vista.
-Ma io quel maledetto lo ammazzo di botte, gli faccio una faccia così, almeno non si fa vedere per un pò, questo maledetto, quell'inutile vigliacco....
Fortunatamente aveva qualche amico saggio per davvero.

martedì 5 gennaio 2010

L'abitudine è un mostro tenace, puoi fuggirci, certo, ma alla fine o sarà lei, oppure tu la richiamerai. Perchè è dolce e confortevole, ti rimbocca le coperte, ti protegge dal freddo e dal caldo, ti mostra una favola senza fine, senza fine, ti scorre prima davanti, poi facendotela amica ti scorre dentro, invecchierai e morirai nell'abitudine.